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L'Italia sotto il sole

di Marco Alfieri e Paolo Bricco

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13 gennaio 2010


Una girandola di cifre. Che si contraddicono l'una con l'altra. Che producono salti temporali, fra mesi e anni, in grado di confondere come odori artificiali, disseminati nei boschi delle Langhe e dell'Umbria, perfino i cani da tartufo. Figurarci due poveri giornalisti economici alle prese con i paradigmi dello strambo capitalismo italiano, l'export che frena, l'atavico nanismo, la domanda interna fiacca.

E, poi, le piste false, dove tutti a parole ti indicano la strada giusta, per poi nascondersi all'improvviso, dicendo che «No, no, ma sta scherzando dottore? Io non voglio mica comparire, sa com'è… ». Un vizio che vale per molti: fonti informate, imprenditori, economisti, osservatori… Paura di dichiararsi ufficialmente, chissà perché. Di prendere posizione, magari critica, magari sferzante o solo dialettica, contro il governo, le istituzioni economiche, le grandi banche. O semplicemente è un po' troppa pigrizia intellettuale per mettersi minimamente in gioco e portare al dibattito il proprio contributo che non sia da strapaese.

L'Italia che cambia in mezzo allo tsunami globale è complicata da decifrare. E, spesso, lascia interdetti quelli che provano a raccontarla. La crisi modifica il profilo di lamiera della nostra meccanica, desertifica i settori a più alto valore aggiunto, riduce a poca cosa l'agricoltura, sferza l'automotive e il suo immenso indotto, inchioda il made in Italy alla sua tracciabilità se vuol salvarsi il brand (e l'anima), spinge i consumatori a dividersi in tribù che si accaparrano le merci ultrascontate in giri di giostra di un minuto netto e in ristrette élite che fanno frusciare le carte di credito, nemmeno fossero ricchi oligarchi russi. Salgono gli operai sui tetti delle fabbriche. Non scendono, anzi, con la sindrome giapponese dell'inflazione a zero aumentano i redditi reali di chi, uno stipendio sicuro, magari nel pubblico o in qualche fascia di capitalismo protetto dalle tariffe, ce l'ha, perché appartiene alla categoria, unica al mondo, degli illicenziabili.

Istat, CsC, Banca d'Italia, Censis, Prometeia. Più autorevoli di così. E poi Cgia di Mestre, Confcommercio, Confartigianato, gli uffici studi delle banche. Le tecnocrazie producono numeri come brioche calde la mattina presto. Per tutti i gusti e tutti i palati. Cento/cinquecento/un milione di posti di lavoro a rischio. Cento/cinquecento/un milione di imprese a rischio. Eppure, si sale e si scende dal pallottoliere come da un ottovolante impazzito, nello stretto giro di pochi giorni. Giornali che (auto)smentiscono gli stessi giornali. Inchieste che oggi dicono bianco e domani nero sullo stesso argomento. La cassa integrazione che un giorno esplode, e quello dopo, invece, «ha diminuito il tiraggio…».

Ma sarà vero che l'Italia sta perdendo, o potrebbe perdere, un pezzo consistente di propria manifattura? Boh. Ma non fa nulla. L'importante nel frattempo è l'opinione per l'opinione, poter ballare tre minuti di tango sui giornali o in tv. A nessuno è negato il proprio personalissimo giro di giostra…
La verità? L'impressione alcune volte è che si forzi un po' la mano sul rischio morìa per alzare la posta e, magari, vedi qualche zelante associazione di categoria, portare a casa un po' di soldi cash per i propri associati, cercando di passare 'a nuttata. Il risultato, totalmente ascientifico, è che si finisce per inondare le arterie tecnologiche dei mass media di cifre, consuntivi, previsioni. Qualcosa che scivola come una saponetta, che contraddice sé e gli altri, in una litania quantitativa che diventa difficile da decrittare nella quotidianità, impossibile da cogliere nella sua reale utilità per capire le tendenze profonde di un Paese, l'Italia, che in fondo nessuno conosce davvero, dato che il "non detto" e il pressappoco, sono elementi essenziali della sua economia e della sua vita civile. La gigantesca macchia rappresentata dall'evasione fiscale, per citare soltanto uno dei punti oscuri, rende monca di alcune parole ogni frase pronunciata o scritta. Insieme al grasso, il fieno in cascina accumulato negli anni d'oro del debito pubblico e delle svalutazioni della liretta che tornano buone adesso che c'è da tirare la cinghia. Insieme allo scarsissimo debito privato delle famiglie, che lascia una flessibilità impensabile in altri Paesi più consumer. E poi alla rendita, che è tutto in Italia. Per tralasciare l'economia criminale, che raccoglie le risorse al Sud e le reinveste al Nord.

Gli stessi paradossi tipici della nostra "contraddizione virtuosa", raccontati dal pirotecnico Giuseppe De Rita, gli stessi elementi di forza adattivo-reattiva che hanno permesso al Paese di sfangarla un'altra volta, vengono sequestrati dalla narrazione pubblica di questi mesi come frecce all'arco di un Paese in fondo meglio attrezzato di altri per la traversata del deserto: niente megalopoli caratterizzate da disgregazione sociale bensì 8mila comuni che permettono di assorbire gli effetti recessivi. I famosi 100 distretti industriali che fanno comunità e capitalismo diffuso al posto dei 50 campioni nazionali francesi. Gli 8 milioni di partite Iva, un vitalismo straordinario. L'elogio improvviso dei "territori" e dello sviluppo locale dopo averli snobbati e mai calcolati per cinquant'anni. L'inesauribile "bancomat" familiare rimpinguato da decenni da vere formiche. Banche più arretrate, meno finanziarizzate e dunque più schermate dai prodotti tossici. E un welfare capillare, spesso informale, ma prezioso… l'economia informale come valvola di sfogo…

  CONTINUA ...»

13 gennaio 2010
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